La sfida delle Cure Palliative

Mons. Paglia a Monaco Principato - 22 marzo 2022

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Construire une culture de la responsabilité sociale: le défi des soins palliatifs.

S.E. Mons. Vincenzo PAGLIA

Principato di Monaco – 22 marzo 2022

Originale francese

Traduzione italiana

Ringrazio per l’invito a questo incontro sul tema “Construire une culture de la responsabilité sociale: le défi des soins palliatifs”. Nella prima parte il titolo allude al vasto tema della fraternità umana e delle forme sociali con cui si articola nella storia. La responsabilità sociale sta a dire che il “noi” della società, particolarmente intaccato dall’individualismo sfrenato che caratterizza la post modernità, è un compito affidato a ogni essere umano: tutti, nessuno escluso, ha la responsabilità di partecipare alla costruzione della società.

(…) La Pontificia Accademia per la Vita segue con grande interesse lo sviluppo delle cure palliative. Avviando il Progetto PAL-LIFE nel 2017, abbiamo inteso assumere la sfida posta dalla fragilità della malattia avanzata e terminale. Nel 2018 abbiamo promosso un importante Congresso Internazionale sfociato nella pubblicazione di un White Book per le cure palliative, destinato a tutti i soggetti che possono avere un ruolo nella promozione delle cure palliative e tradotto in diverse lingue. Nel volumetto appare con chiarezza quanto il campo di azione delle cure palliative sia più ampio della tradizionale pratica medicale. Gli autori del White Book, tra i massimi esperti mondiali delle cure palliative, mostrano che la questione della vita umana non può essere ridotta a una questione biologica, tutt’al più dai pesanti risvolti economici. Se c’è un luogo dove emerge in modo evidente che la medicina è forse la più umanistica delle scienze, questo è proprio il campo delle cure palliative. (…)

La questione delle cure palliative  intreccia necessariamente la questione della morte. E’ un tema complesso e particolarmente delicato anche per gli intrecci con le questioni relative all’eutanasia, al suicidio assistito, alla sedazione profonda, alle disposizioni anticipate di trattamento.

Mi pare utile soffermarci, almeno un poco,  a riflettere sulle ragioni che hanno reso particolarmente complesso i temi del “fine vita”. Da una parte abbiamo gli sviluppi della medicina e delle nuove tecnologie che intervengono in maniera sempre più invasiva nelle questioni relative alla fine della vita. Dall’altra ci sono dinamiche culturali che insistono sulla centralità della libertà individuale intesa come autodeterminazione assoluta.

Papa Francesco è entrato nel dibattito riconoscendo la capacità terapeutica della medicina che «ci ha permesso di sconfiggere molte malattie, di migliorare la salute e prolungare il tempo della vita. Essa ha dunque svolto un ruolo molto positivo. Ma per converso, oggi è anche possibile protrarre la vita in condizioni che in passato non si potevano neanche immaginare. Per cui gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle». In questo caso non stiamo veramente promuovendo la salute. Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere, anche grazie alla disponibilità di mezzi tecnologici, «con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona» (Francesco, Discorso al Convegno della World Medical Association sulle questioni di fine vita, 17 novembre 2017).

La vita è un dono, va custodita, sostenuta, aiutata e sempre difesa: vale per la vita di chi deve nascere, per la vita dei tanti bambini che soffrono per la fame, o anche per la guerra, per la vita di chi è condannato a morte, per la vita di chi fugge dalla violenza. E così oltre. Certo, quando ci troviamo di fronte a una persona determinata a mettere fine alla sua vita, siamo davanti a una sconfitta. Non solo per lui, che purtroppo ha sentito di non farcela a vivere, ma anche per noi tutti, per la nostra società che non è stata capace di rispondere. Io non credo, e questi giorni di guerra terribile non fanno altro che confermare questa intuizione, che siamo chiamati a fare il lavoro sporco della morte.

Le cure palliative, con tutta la carica di attenzione, di relazione umana, anche di eliminazione del dolore, a mio avviso sono una risposta forte ed eloquente a chi avanza una richiesta di morte, spesso generata dalla paura del dolore e della solitudine.

Il dibattito giuridico che si acceso in molti paesi del mondo non deve farci dimenticare che la posta in gioco si trova sul terreno della cultura. È qui, infatti, che avviene la composizione tra la dimensione giuridica e quella etica. Due dimensioni che sono distinte ma non separate, connesse ma non coincidenti, e che trovano proprio nella cultura un terreno di mediazione. Ed è su questo terreno che anche le cure palliative possono fornire un apporto determinante. La logica dell’accompagnamento che esse promuovono intende superare l’immaginario del controllo della morte, che si esprime attraverso il tentativo sia di prolungare la vita a qualunque costo, sia di accelerare la morte. Si vede così che l’alternativa non è tanto tra l’ostinazione irragionevole (accanimento terapeutico) e le diverse forme di procurare (o procurarsi) la morte, tra assolutizzazione della sopravvivenza biologica e mitizzazione dell’autodeterminazione, che portano entrambe a esiti problematici. (…) È sul terreno della cultura che i credenti possono fornire il loro migliore contributo, riconoscendosi, rispetto alla società civile, non controparte, ma soggetti attivi di quella responsabilità sociale che tutti sono chiamati ad esercitare, in un atteggiamento di reciproco apprendimento.

Noi lottiamo strenuamente perché non sia l’avvilimento della morte a decidere il valore della vita. Lottiamo, perché non sia il criterio di utilità a decidere il valore delle persone. Occorre imparare ad accompagnare ciascuno verso l’accettazione della condizione mortale che è propria degli esseri umani. Resistiamo all’illusione di poter cancellare il mistero di questo estremo passaggio, che comporta anche l’attraversamento di contraddizioni difficili e dolorose da assumere.

Il lavoro della cura è il nostro impegno a rendere umana questa accettazione. L’atto della cura accetterà – e aiuterà ad accettare – il proprio limite invalicabile: con tutta la delicatezza dell’amore, con tutto il rispetto per la persona, con tutta la forza della dedizione, di cui saremo capaci.

Questa mi sembra la sfida – difficilissima e umanissima – che abbiamo davanti e che credo dobbiamo affrontare insieme. L’accompagnamento e la ricerca di un modo umano di vivere anche la morte, senza perdere l’amore che lotta contro il suo avvilimento, è l’obiettivo della “prossimità responsabile” alla quale tutti, come essere umani, siamo chiamati. L’intera comunità deve esserne coinvolta. L’amore per la vita, nella quale sperimentiamo di essere amati e impariamo ad amare, non è più solo nostro: è di tutti coloro con i quali è stato condiviso. E così deve essere, sino alla fine.